The building climbers
La parola d’ordine era “Undici!”.
Ci davamo il cinque dicendo “Undici!”.
Undici erano i piani di quel palazzo.
Un ponteggio da undici piani, tubi innocenti a perdita d’occhio.
Un’impalcatura da quadro di Escher, una geometria solida vertiginosa.
Un cantiere per ridipingere la facciata e mettere a norma il palazzo, secondo le nuove leggi edilizie.
Eravamo “The building climbers”.
Così ci avevano chiamato a Londra quando avevamo ristrutturato a tempo di record un edificio in Baker Street, a pochi passi dalla casa di Sherlock Holmes.
Questi undici piani, invece, erano a Mantova.
Una specie di grattacielo nella città dei Gonzaga e della sbrisolona.
Quante sbrisolone ci eravamo pappati in quei quindici giorni.
Ma si, la sbrisolona, quella torta fatta con la farina di mandorle, che si sbriciola in bocca e fra le mani.
Al sedicesimo giorno eravamo solo a metà dell’opera (non della sbrisolona).
The building climbers.
Ventidue potenti lavoratori del ramo edilizio, capaci di correre in equilibrio su assi a 30 metri di altezza. Uomini e donne. C’erano anche tre donne, esperte nell’imbiancatura delle pareti e nella collocazione delle grondaie.
Ventidue esseri dediti alla costruzione, ricostruzione e abbellimento delle abitazioni.
Ventidue arrampicatori di tubi, ventidue artisti di calce e cazzuola.
Muratori, imbianchini, idraulici, carpentieri e così via.
Geometri e capocantiere a guidare la ciurma, anche loro pronti ad arrampicarsi attraverso le botole che collegavano i piani.
Tutto in regola: caschetti, imbracature quando necessario, scarpe da lavoro a norma, guanti, occhiali.
E molta attenzione.
A quell’altezza devi stare attento.
Ogni gesto deve essere calcolato, anche se è un gesto che compi da anni.
Nella pausa non scendevamo. Stavamo lassù in compagnia di piccioni e di qualche gabbiano spaesato.
Ognuno aveva il suo cestino e ognuno scambiava con gli altri le sue leccornie.
Carmelo il calabrese ci proponeva il salame piccante, Gaspare il veneto aveva sempre un pezzo di stoccafisso, Lamberto da Torino, gianduiotti a fine pasto, Marina da Palermo arance succose. Io venivo da Roma e la porchetta era sempre con me. C’era anche Michele il vegetariano che mangiava un po' di lato per non vedere tutta quella carne che finiva nei nostri stomaci voraci. Ma poi arrivava con una frittatina di zucca che era il top.
E si cantava qualche volta.
Gianfelice aveva anche un ukulele che ogni tanto strimpellava facendoci sognare di isole lontane e mari incontaminati…incontaminati? Bé, non so se ci sono ancora mari incontaminati…certo ci sono isole lontane che non ho mai visto.
Io macino il caffè a mano.
Compro i chicchi in torrefazioni di qualità, le cerco con attenzione e in ogni città trovo quella giusta. Miscele di arabica o di robusta e arabica in giusta dose.
Così il caffè lo preparavo sempre io: macinino della mamma anni '50 e poi belle caffettiere con aroma da vertigine su fornelli a gas. . Forse questi non sono molto a norma…ma qualche eccezione bisogna farla ogni tanto per un buon caffè.
Al sedicesimo giorno, come sempre avevamo fatto la pausa alle ore 12,30.
Non eravamo così fiscali. I “Building climbers” non guardavano l’ora.
Ma quel giorno, quel sedicesimo giorno erano le 12,30.
A volte la pausa la facevamo alle 12,45, altre volte alle 12,15.
Ma quel sedicesimo giorno erano le 12,30 in punto.
Tutto a posto. Mangiati, ukulele, chiacchere, pensieri e poi il caffè.
Aiutato da Margherita e da Baldo avevo preparato cinque belle moke.
Il momento del caffè è magico.
Si ferma tutto.
Si sospende per un attimo tutto: la tensione del mutuo da pagare, i pensieri della figlia da mandare all’università, la tristezza dell’ultimo litigio con la moglie o con il fidanzato, si sospende tutto per un attimo, non si guarda il cellulare, non ci si gratta, non ci si soffia il naso, non si pensa al giochino con il record da superare, alla squadra del cuore.
Si pensa a niente, si beve il caffè.
Tutto è lì, concentrato su quella tazzina.
“Cosa ne dite se lo correggiamo, oggi?”
Era Ippolito a parlare. Veniva dalla provincia di Trento.
“Mio fratello me l’ha portata ieri. Grappa delle nostre parti, grappa del trentino…”
Estrasse dallo zaino una borraccia da soldato.
“Mi sembra una buona idea, una bellissima idea!” disse Gaspare (dal Veneto…).
“Dai!”
Il capocantiere fece una smorfia.
“Ragazzi…siamo a trenta metri di altezza…”
“Un goccino…”
Gaspare afferrò la borraccia di Ippolito e ne versò una goccia nella tazzina.
E bevve.
“Va giù meglio il caffè…così…ottima!”
Fu contagioso.
In silenzio fu una specie di rituale. Come passarsi il calumet della pace o uno spinello nei momenti topici della vita.
Borraccia, goccino, sorso, apprezzamento, occhi luccicanti.
Borraccia, goccino, sorso, apprezzamento, occhi luccicanti.
Borraccia, goccino, sorso…
Ora gli occhi luccicavano a tutti.
Il caffè era stato addomesticato dall’alcol e l'alcol l’aveva trasformato in un elisir della memoria.
“Da piccolo mia mamma mi preparava la soma, per merenda.”
“E cos’è?”
“Una pagnotta di pane senza la mollica, sulla crosta mia mamma sfregava dell’aglio. Questa è la soma, pane e aglio. Era una figata.”
“Io da piccolo mi arrampicavo sugli alberi per guardare il nido delle capinere…”
“Ti arrampicavi già allora!”
“Tree climber!”
“Yes, ma ora sono un building climber!”
“Vai con i building climbers! Sali al cielo e metti i balconi alle nuvole!”
“Undici!”
Alex il romeno si alzò.
Alex era il più agile di tutti noi. Magro e forte come una pantera, si arrampicava lungo i tubi più rapido di tutti.
Non aveva grande agilità nella lingua italiana e ci divertiva con i suoi strampalati errori.
Aveva un’età indefinita, trenta, quaranta, cinquanta, chissà?
Generoso e gran lavoratore era amato da tutti.
Alex prese due tre cazzuole e le fece ruotare e volteggiare per aria come un giocoliere.
Ci guardò.
“Io non ho detto mai, amiche e amici, io stato in circo, grande bello circo. A Bucarest e Vienna e tutta Europa. Facevo prima il giocollerio poi acrobato. Lassù su trapezio e prendevo per mano mia sorella Tatiana che volava alta in soffitto di circo.
Poi Tatiana un giorno non mi ha preso mani, caduta su rete, ma rotta gamba e schiacciata vertrebale di schiena e piangere tantissimo, che non la consolavo, no, perché niente più trapezio e volo come angelo. Finita sua carriera, doveva mettere segatura su pista e pulire elefante. Triste. Io non riuscito più a salire su trapezio e andato per mondo. Qui con voi ritrovato famiglia.”
“Acrobata! Grande!”
“Guardare.”
Non dimenticherò mai più quello che ho visto in quel sedicesimo giorno di lavoro a Mantova.
Alex si aggrappò con disinvoltura ai tubi in alto e si mise in posizione di squadra come niente.
Poi iniziò a dondolare e ruota intorno al tubo per ritrovarsi sopra di noi.
“Buono caffè, buona grappa!”
Si gettò a volo d’angelo.
Gridammo.
Ma lui aveva afferrato con un mano un tubo, in basso.
Ci sporgemmo a guardare.
Lo vedemmo stare in posizione tesa, verso il vuoto, con le due mani in presa sui tubi.
Poi si raggomitolò e fece una rotazione per lasciarsi cadere giù.
Ricomparve sotto dalla botola.
Era una cavalletta scappata dal suo sciame che balzava di fiore in fiore, di stelo in stelo, di tubo in tubo, facendo scricchiolare le assi di legno e sollevando piccole nuvole di polvere.
Ora era al primo piano.
Ci guardò dal basso: “Buono caffè, buona grappa!”
E prese a risalire come Spider Man, con le mani nude, senza fili di ragnatela, saltando, afferrando, rotolando, piano dopo piano.
Al quarto piano si aggrappò alla catena della carrucola e fece un largo giro sempre nel vuoto, per piombare a capriola sui legni delle assi.
Ce lo trovammo improvvisamente tra di noi, in verticale sulle mani.
Scese dalla verticale e ansimando sussurrò: “Buono caffè, buona grappa, mia famiglia.”.
E si addormentò di colpo.
Con questo racconto partecipo a Theneverendingcontest n.72 S2 -P5-I2 proposto da @adinapoli
I disegni sono dell'autore
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