CDUMDS. Capitolo 6 - Solo

in #ita7 years ago (edited)

Avevo il mio motorino, ero indipendente nelle scelte, qualche soldino residuo in cassa per far fronte agli sfizi di un adolescente, un piccolo bagaglio di esperienza sulle spalle, e crescente fiducia in me.
Poteva bastare.

Con l’impennata dei voti scolastici, mi era rimasta appesa solo Matematica, che non ne voleva sapere di entrare a far parte delle mie corde. Facevo esercizi, non riuscivano. Tutto qua.
Studiavo relativamente poco, mi bastava tenere l’andatura che portavo, non mi interessavano lodi inutili. Facendo il minimo indispensabile riuscivo ad avere tempo per dedicarmi all’atletica e agli amici. Quello che non riuscivo a fare d’estate, cercavo di recuperarlo da Settembre a Giugno.

Insieme ai bei voti, e alla deposizione delle armi da parte di mio padre, anche mia madre allentò un tantino la presa con la sua ansia.
Il preoccupantesimo, che aveva inventato e professato fino a quel momento, stava lasciando il passo alla consapevolezza.
La consapevolezza di un figlio che si stava incamminando sulla propria strada, e la consapevolezza che le forzature, che negli anni erano state il deus ex machina della mia esistenza, avevano portato dei miseri risultati rispetto all’impegno costato.
Insomma, per la prima volta nella mia vita iniziavo ad ottenere risposte che suonavano "fai come vuoi” rispetto al “no”, oppure al più umiliante “i tuoi fratelli non hanno fatto così”.

Perciò il pomeriggio, cinque volte a settimana, lo passavo principalmente al campo sportivo, ad allenarmi insieme alla mia squadra. Erano quattro anni che praticavo l’atletica leggera, avevo fatto decine di gare, e migliorato costantemente i miei record personali. Non avevo, però, vinto mai nulla.
Spesso terzo o quarto, alcune volte secondo, ma mai primo.

Il mio preparatore, era frustrato quanto me. Davamo la colpa alle gare organizzate male, all’estate che spezzava i ritmi, al tempo, al terreno sconnesso, alle scarpe scomode. A tutto, tranne che a noi stessi.

Nel 1999, facevo parte della categoria allievi, l’anno successivo sarei stato uno Juniores, che avrebbe significato la pretesa di risultati nettamente migliori, solo per potersi iscrivere alle gare.
Entrambi sapevamo, che se avessimo voluto vincere qualcosa, era il caso di darsi da fare perché il tempo stringeva.

Sinceramente, mi allenai come sempre, senza nessuna ansia da prestazione.
La corsa per me era prima di tutto un momento di svago e di sfogo. Se non avessi avuto gare da preparare, mi sarei allenato comunque, perché lo sport faceva parte di quei richiami irresistibili, a cui non potevo dire di no. Perciò ci concentrammo solamente sulla scelta delle gare più appropriate a me, rispetto al mio stato di forma e conformazione fisica.
Il mezzofondo era la mia matrice, dovevamo scegliere se puntare sulle siepi, sulla campestre, sui tremila, cinquemila, o sulla strada.
Procedemmo per tentativi.

Le siepi, come già detto, era la gara che amavo di più, ma aveva un grosso limite: non era così frequente.
Era possibile, infatti, solamente in quegli impianti un po’ più moderni e professionali, dove la riviera fisicamente esiste, insomma.
Spesso, invece, le gare erano organizzate in strutture di fortuna, o con alle spalle millenni di manutenzione non effettuata. Su dieci gare, almeno cinque non prevedevano le siepi.
Ci avremmo provato quando possibile.

La corsa campestre, nel mio ordine di preferenza, veniva immediatamente dopo.
Adoravo l’aria aperta, e la non costrizione del circuito modello criceto, la rendeva la cosa più naturale del mondo.
Lo svantaggio della corsa campestre, era la massiccia partecipazione e l’orario in cui si svolgeva.
Essendo una specialità mista, chiamiamola così, la corsa campestre infatti richiama sia i fondisti, sia i mezzofondisti, ma viene tentata anche dai velocisti. Questo perché essendo effettuata su terreni sconnessi, circuiti ricchi di curve strette, salite, discese e altre insidie imprevedibili, non è mai certo chi possa avere la meglio.
Non è detto, che se percorri tre chilometri in pista in otto minuti, riesci ad ottenere lo stesso risultato in campagna.
In una gara di mezzofondo su pista, solitamente, eravamo al massimo una quindicina.
In una corsa campestre, era facilissimo trovarsi alla partenza in più di cento.
Queste gare, poi, venivano organizzate sempre di domenica, e al mattino presto.
Perché? Ci domandavamo. La risposta era sempre “perché così non fa troppo caldo”.
Le gare su pista, anche a Luglio inoltrato, erano regolarmente alle tre di pomeriggio.
Ma per la campestre, a quanto pare il caldo era una discriminante. Bah.

Bisognava puntare alle medie distanze, su pista.

Feci diverse gare, sia sulla distanza di tremila metri, che sui cinquemila. Non riuscivo però ad essere competitivo. La distanza ce l’avevo nelle gambe, ma la velocità costante, no.

A Marzo 1999, non avevamo ancora ottenuto un risultato degno di nota.

Il mio allenatore, un giorno venne da me, con la frustrazione del periodo, e mi chiese:

“Te la senti di fare la mezz’ora in pista”?

“Come funziona?” – gli chiesi, anche se potevo intuire.

“A distanza. Hai mezz’ora di tempo, per percorrere la distanza maggiore possibile”.

“Impegnativo” – dissi io “Quando sarebbe?”

“Domenica, a Rieti, per i campionati regionali” – mi rispose

“Non ci sono altre gare, non ci sono le siepi?” – gli chiesi ancora.

“Si, ci sono anche tutte le altre gare, ma su questa gara non ci abbiamo mai provato, e comunque non la vuole fare nessuno. Se te la senti, io direi di fare questa”

Come mio solito, non vedendo niente di particolarmente pericoloso all’orizzonte, dissi di si.


La domenica pomeriggio, ci recammo agli impianti sportivi comunali di Rieti.
Una gara di atletica leggera, quando fa parte di campionati ufficiali (provinciali, regionali), è sempre una cosa bella a cui prendere parte.
Ci sono decine di ragazzi vestiti con le divise societarie, i genitori, gli allenatori, gli arbitri.
Ci si scalda, si prova, ci si prepara, si sistemano i blocchi di partenza al millimetro, perché potrebbero cambiare l’andamento di una gara. Ti viaggiano in testa dischi, pesi, giavellotti, mentre alcuni fanno il salto con l’asta, il triplo, il lungo, o il salto in alto.
E’ un formicaio.

Noi eravamo in cinque, e ognuno iscritto per la proprio specialità.
La mezz’ora in pista sarebbe stata una delle prime, per poi lasciare spazio alle gare via via più veloci.

Il mio preparatore, era molto sereno. Nessuno di noi si era scommesso case o donne, perciò non c’era da stare tesi. In ogni caso avremmo vissuto una giornata di sport, che era il nostro primo obiettivo.

Studiammo la strategia, attenendoci al risultato migliore possibile.
Dovete sapere, infatti, che da una certa categoria in poi, in atletica leggera, non è importante solo vincere, ma farlo con un risultato minimo.
Ad esempio, se ci fosse un campionato regionale dei cento metri, e io fossi l’unico partecipante, tanto da fare la gara passeggiando, diventerei campione regionale, ma non potrei concorrere al campionato nazionale, poiché non avrei ottenuto il tempo minimo per potervi prendere parte.
Altezze o lunghezze minime per i saltatori, tempi minimi per i corridori, e distanza minima per gare come quella che avrei fatto io.
Il minimo di categoria, per poter puntare al campionato nazionale, nella gara che avrei affrontato quel giorno, era ottomila metri. Otto chilometri in mezz’ora.
Infattibile.

Io facevo tre chilometri in dieci minuti e mezzo, ed era il mio record personale.
Ne facevo cinque in diciotto, ma arrivavo con la lingua che mi inciampava tra le caviglie.
Avevo fatto undici chilometri, su strada, in quarantacinque minuti, durante una gara di paese.

Avrei partecipato, ma era abbastanza evidente, che anche quel giorno non avremmo portato a casa niente.
Studiammo ugualmente la strategia.
I miei personali li conoscevamo, ma che dovevamo fare, andarcene a casa?
Ci avremmo provato. Io ci avrei provato.

La strategia era partire forte, per poter avere un margine di calo fisiologico da un certo punto in poi, e gestire i secondi persi nei giri finali con quelli guadagnati nei giri iniziali.

Al via, eravamo in sedici, troppi.
Avrebbero fatto due batterie da otto, in ordine di personali, e io sarei stato nella seconda, perché non avevo questi tempi memorabili sul curriculum.

La prima batteria, la guardai da bordo pista. Per mezz’ora, ognuno utilizzava una strategia diversa.
C'era stato un vincitore, ma nessun minimo. C’era un potenziale campione regionale, ma senza numeri per procedere ai nazionali.

Ci posizionammo nella seconda batteria. Quella degli scarsi, rispetto a quella appena conclusa.

Allo sparo dello starter, partimmo.
Io, rimasi nel gruppo, controllavo solo l’orologio ogni cento metri per controllare il ritmo. Mi preoccupavo del ritmo da tenere, e di non perdere il contatto col gruppo.
Un giro così, due giri così.
Al terzo giro, sentìì il mio allenatore che al passaggio urlò arrabbiato:
“Lascia stare l’orologio, corri!”

Provai a dargli ascolto, perché in effetti muovere il braccio per guardare l'orologio, produceva un calo di attenzione e concentrazione verso il vero obiettivo: la gara!
Accelerai un pochino, più per dimostrare a lui che potevo correre di più che altro, e sentii mancarmi il fiato e un peso enorme nelle gambe.
Guadagnai due metri, ma fui riassorbito immediatamente.
Rimasi in gruppo, avevo paura di perdere, non voglia di vincere.

Ancora un giro, e ancora uno.
Guardavo i miei compagni a bordo pista, mi incitavano, urlavano, e l’allenatore si sbracciava.
Non pensai più nulla. Corsi.

Persi il conto dei giri fatti, potevano mancare ancora venti minuti alla fine, o due, non lo sapevo.
Mi trovai in un gruppo sempre meno numeroso, probabilmente perché erano gli altri a mollare, non noi a forzare.
Meno numeroso, giro dopo giro.
E per la prima volta, mi ritrovai solo.

Solo, davanti, senza nessuno da rincorrere, come avevo sempre fatto dal mio primo goffo approccio con la corsa. Ricordate?
Solo, senza sapere cosa fare, senza punti di riferimento. Senza conoscere quanta strada avevo percorso e quanta ce n’era ancora da fare.

Corsi, stringendo i denti, e spinto da una forza interiore, una forza che diceva “sei il più figo del mondo”.
Spavalderia? Arroganza? Probabilmente si.
Anche se mi sentivo semplicemente il primo tifoso di me stesso, il mio capo ultras.

Suonò la campana. In una gara del genere, la fine è decretata da una campanella che suona, e in quel preciso istante, un arbitro per ogni concorrente segna il punto in cui si trovava al suo suono.

Io feci altri pochi passi, e mi buttai a terra. Non era una resa drammatica, ma un “finalmente è finita, mamma mia che fatica”.
Tutta la squadra corse verso di me, urlando come dei pazzi.
Ero arrivato primo della mia batteria, erano felici per quello. Anche se non era un primo posto vero e proprio, era idealmente una vittoria, andava festeggiata ugualmente.

“Hai vinto! Hai vinto! Il minimo!” sentivo farfugliare.
“Grande, Ferrara! Ferrara!"

Trenta secondi per riprendere il bandolo della matassa, ma soprattutto il respiro, e chiesi:
“Ma che state dicendo? Quanto ho fatto?”

Sul tabellone lunimoso, affianco al mio nome c’erano a sinistra il numero 1, e a destra il numero 8.016.
Otto chilometri e sedici metri.
Come si dice nel tennis: ball, game, match!

Campione regionale di quella specialità, e risultato minimo che mi garantiva l’accesso al campionato nazionale di corsa su strada che si sarebbe tenuto a Giugno a Ferrara.

FASE ASCENDENTE DELLA PARABOLA

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Come mi sentii in quel momento? Come mi sentivo in quel periodo?
Ho letto ultimamente un post dell'amico @mad-runner che ha vissuto un'esperienza simile, e può confermarvelo: Figo.

Come si deve sentire, altrimenti, un adolescente a cui gira bene? Figo. Fighissimo.

Era ora di aggiustarsi, curarsi un pò, e pensare a Barcellona. Dopo tanta fatica, un pò di meritato relax in viaggio d'istruzione (distruzione)

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in partenza

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montjuic


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Bellissimo racconto, grande davvero @suryavoice, per il classico pelo hai centrato tutto, vittoria e minimo, con godimento superlativo perché non ti sei reso conto della tua prestazione, e chissà quanta adrenalina quando hai realizzato l'accaduto!!
Grande!!!

Immagino la gioia della vittoria, toccavi il cielo con un dito, poi a quell’età dove le emozioni si vivono al cento per cento!!!

E dopo la Grecia, Barcellona eh.. interessante, la questione si fa intrigante.
Attendo il resoconto del viaggio 😎 la tua faccia dalla foto non promette nulla di buono 😂

Ciao Surya ❤️

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