Lo zoo postale

in #ita7 years ago

Stamattina sono andata alla zoo, lo zoo postale.
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Aperta la porta due persone sono precipitate fuori: stipate all’interno come sul 18 nell’ora di punta non hanno retto lo spostamento d’aria e sono state risucchiate in un vortice che le ha sollevate da terra, facendole sembrare grottesche imitazioni di Mary Poppins. Ciò che è uscito dalle loro bocche, però, non aveva niente a che fare con Basta un poco di Zucchero. Anch’io inizio la mia partita a tetris ed entro.
Numero B02: ah beh, esclamo sollevata, siamo solo ad A71! Mi ci vorrà giusto un attimo!

E da brava scrittrice come ho ingannato l’attesa? Analizzando il campionario umano che ha messo in scena, davanti ai miei occhi, i migliori spettacoli circensi. Subito noto, per il livello di decibel emessi con puro accento napoletano, il classico attaccabottone, che ha pinzato una signora e la marca stretta. Seduto, tra di loro, un pover’uomo, terreo in volto, che tentava con tutte le sue forze di astrarsi da quella conversazione di cui non gli fregava assolutamente niente, ma senza successo. Così, ad un certo punto, si è alzato, distrutto. Subito una donna avvoltoio è planata sul posto rimasto vuoto, ma anche lei non ha resistito più di qualche secondo a quello tsunami di parole e ha abbandonato la preda troppo putrescente. Nel frattempo l’interlocutrice del conferenziere si era mummificata, prosciugata di ogni linfa vitale.

Un odore di morte misto a gorgonzola mi ha distratto da queste vicende, perché un giovane, di salute direi incerta, ha tirato un bel sospiro proprio al mio fianco, investendo il mio naso con un monsone senza uguali. Barcollo, ma non mollo. In fondo mancano solo 20 persone al mio turno.

Una cosa però mi incuriosisce: il campionario di parolacce ed imprecazioni lanciate al cosmo dalle persone che lasciano l’ufficio postale. Una fantasia da farne un catalogo Postalmarket. Così osservo meglio e con orrore noto che hanno tutti in mano buste con la famigerata scritta Equitalia. Cartelle di pagamento! Ahia, comincio a preoccuparmi per la mia raccomandata.
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Un operaio ancora in tuta da cantiere apre la sua lettera vicino a me: una bestemmia di proporzioni colossali mi svernicia la faccia mentre come un ossesso esce sbattendo la porta, e dietro di lui un dolce vecchietto, che tra due dentiere ballerine biascica “ma porco belino” e, anche lui, se ne va. Equitalia fra le sue dita.

Dietro al bancone l’impiegata, che sembra non aver ancora finito il turno dal 1984 visto come è vestita e pettinata, chiede a tutti se vogliono ritirare o far finta di niente. Pare sia una prassi: quando la persona sobbalza alla vista della missiva e rischia un infarto Sue Ellen pone la domanda: la vuole? Molti dicono di no. Altri la prendono, e imprecano.

Una vocina alle mie spalle mi distoglie da questi pensieri: “Permesso, tocca a me!” Un vecchietto, con un’espressione non proprio appartenente a questo pianeta, almeno non più, cerca di farsi strada fra la folla di derelitti. “Guardi che ci sono io prima” gli dice gentilmente una signora, ma lui niente, va avanti tipo bulldozzer. Beh, più o meno. Un bulldozzer di lego. “Lei non era in coda” le risponde gesticolando “era lì di lato, non è quella la coda.” La Signora lo guarda perplessa, mentre lui procede verso il bancone, e mi passa davanti. Mi sorge spontanea una domanda: ma dove diavolo vai che ci sono i numeri?? E allora capisco che lui non lo sa. “Permesso, si tolga!” Batte ora su una spalla ad un giovanotto, che quando è entrato era perfettamente rasato ed ora sembra Barbablu. “Fammi passare giovinastro!” E quello si gira di scatto, e a due centimetri dalla faccia gli urla: “ Cazzo nonno, sei scappato dall’ospizio?” Nella sala scende il gelo.
Nel frattempo è arrivato il mio turno. Foglietto e documento. Farah Fawcett mi porge la busta: Equitalia.

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