Sotto la pioggia, sotto la pelle

in #ita6 years ago (edited)

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Cari tutti, ben trovati-e-ritrovati in Altrimondi – quello che, tra il serio e il faceto, ho voluto chiamare il mio e vostro piccolo magazine del Fantastico & dintorni…

L’ultima volta ci siamo incontrati, nostro malgrado, per salutare la dipartita del grande Harlan Ellison, scrittore che con la sua passione e la sua furiosa verve narrativa – ovvero con la sua eccezionale prosa – ha lasciato una cicatrice indelebile sulla letteratura del Novecento.

Oggi ci consoliamo percorrendo un sentiero meno sofferto, ma non meno tenebroso. Una strada fatta di pellicola e di sogni inquieti, di brutali omicidi e di innocue fantasie… È un viaggio un poco più lungo del solito, per cui sarà meglio mettersi subito in cammino.

PS - Tutte le immagini di questo post sono di mia proprietà.

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Anche se oggi sembra passato di moda più o meno come il Betamax o i floppy disk, Wim Wenders è stato – grossomodo tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso – il Regista di Culto per eccellenza, quello citato a ogni piè sospinto come esemplare zoologico dell’autenticato e pluricertificato Autore con la “A” maiuscola. Il che non gli ha d’altro canto impedito di omaggiare il cine-trash americano nel suo Lo stato delle cose (Leone d’Oro a Venezia nel 1982), mostrando – in un classico esempio di film-dentro-il-film (o metacinema, se preferite) – una troupe di avventurieri della celluloide alle prese con il rifacimento di qualcosa che somiglia molto a Il mostro del pianeta perduto di Roger Corman (1955).
Che il cinema ami parlare di se stesso è cosa nota e naturale: chiunque collabori a una messinscena così fastosa, a un trucco così inebriante, a un così meravigliosamente fasullo sogno di cartapesta, non può che trattenersi a stento dalla pulsione di spifferare tutto, di raccontare cosa – tra strepiti, imprecazioni blasfeme e singhiozzi soffocati – accade veramente dietro il silver screen, quando il set si è svuotato e le luci di scena sono spente. Però… Prima che a qualcuno tra voi venga voglia di spingersi sulla perigliosa via che conduce ad altri super-blasonati esempi di metacinema, come l’Effetto notte di Truffaut (1973) o il felliniano 8 ½ (1963), io tiro il freno a mano per cambiare bruscamente rotta e condurvi, se lo vorrete naturalmente, lungo una via secondaria, meno “culturalmente rispettabile”, ma forse un poco più divertente…
Sul percorso, battuto dalla pioggia accecante, incontreremo un casello autostradale in disuso (certo, l’uscita è stata spostata) e una deviazione che porta a vecchio motel semi-dimenticato, ma comunque ben tenuto. Un luogo che non esiste, nel quale però, in un modo o nell’altro, siamo stati tutti…

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Ma non corriamo troppo.
Al cinema – dicevo – piace parlare di se stesso, e al cinema horror-fantastico sembra che piaccia ancora di più. Per averne la riprova immediata, basta pensare a pellicole come L’ombra del vampiro (E. Elias Merhige, 2000), che racconta in modo tenebroso e fantasioso la genesi del leggendario Nosferatu di Murnau (1922), a Demoni e dei (Bill Condon, 1998), incentrato sulla biografia di James Whale – leggendario regista di Frankenstein (1931) – o al surreale, ma anche estremamente realistico, Ed Wood di Tim Burton (1994), celebre ritratto di quello che, a torto o a ragione, è stato definito come il “peggior regista di tutti i tempi”… In effetti, decenni prima che i canali televisivi tematici, i “contenuti speciali” dei dischi DVD o Blue Ray e le infinite risorse della Rete globale cominciassero a gettare gustosi retroscena e curiosità (come fossero prosciutti) nelle fauci dei fan, questi ultimi avevano già cominciato a cercare soddisfazione racogliendo qua e là memorabilia e indiscrezioni ovunque potessero trovarne. È qualcosa che per il fanta-horror-fanatico medio sta a metà tra un nostalgico piacere e un’ossessiva necessità, quell’impulso a cui solo il californiano Forrest J. Ackerman ha saputo pienamente rispondere, in una vita di compulsivo collezionismo…
Lungo questa via, però, si corre il rischio di perdere nuovamente il filo. Torniamo sull’autostrada battuta dalla pioggia, sull’asfalto di quella deviazione che abbiamo imboccato per errore. Ecco che in lontananza, un neon rassicurante ci tende la sua sfavillante mano attraverso l’oscura e rabbiosa parete d’acqua. C’è scritto Bates Motel e, poco sotto, Vacancy. Perfetto. Tra poco potremo liberarci del freddo e dell’umidità, mettere sotto i denti qualcosa di caldo e infilarci tra lenzuola pulite.
Ma non prima d’aver fatto una doccia bollente.

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Psycho è quasi per certo il più universalmente noto tra i successi da cui la carriera di sir Alfred Hitchcok è costellata, e questo perché – banalmente – è un capolavoro. È un capolavoro di tecnica narrativa, di manipolazione emotiva (e cognitiva) dello spettatore, di gestione della suspense, di montaggio cinematografico e di direzione degli attori. Sì perché, anche se è stato più volte ripetuto quanto sia una pellicola “fredda”, puro e virtuosistico esercizio di stile che relega personaggi e interpreti sullo sfondo – non le si può negare il merito di aver portato alla ribalta l’interpretazione deliziosamente nevrotica di Anthony Perkins, il fascino morigerato-e-carnale di Vivien Leigh, l’istrionica nonchalance di Martin Balsam… “La costruzione di questo film è molto interessante – ha dichiarato lo stesso Hitch al magnetofono del suo più celebre intervistatore (François Truffaut, non a caso) – ed è l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco con il pubblico. Con Psycho mi comportavo come fa un direttore con la sua orchestra, era proprio come se stessi suonando l’organo”. Virtuosismo tecnico, dunque. Ma anche, e inevitabilmente, sfogo passionale, atto creativo “sudato e arrabbiato” che sembra risuonare d’una remota ma innegabile nota erotica. Tutto questo – ed è qui che volevo giungere al termine di una lunghissima introduzione – è quanto il regista Sacha Gervasi ha voluto raccontare nel suo Hitchcock (2012).
Noto prima d’allora quasi solo per la sua relazione con l’ex Spice Girl Geri Halliwell e per il successivo matrimonio con la multimiliardaria Jessica de Rothschild, quest’uomo fortunato ha voluto a quanto pare togliersi il capriccio di raccontare una storia che aveva nel cassetto da tempo – la storia, vera e documentata almeno nei suoi tratti principali, di Psycho, della sua genesi e della sua faticosa realizzazione. E bisogna dire che – a dispetto del tono non troppo lusinghiero con cui ve l’ho presentato – Gervasi non si è comportato troppo male dietro la macchina da presa…

E così, eccoci nel bel mezzo di quell’universo di “nostalgico piacere e ossessiva necessità” cui accennavo poche righe sopra. Vivere l’illusione di penetrare nella vita di un personaggio pluri-raccontato, mitizzato e lontano come Alfred Hitchcock, di vivere nella sua quotidianità, nei tic e nelle personali idiosincrasie, nei battibecchi coniugali così come nelle spire del processo creativo che condusse alla nascita di un oggetto d’arte unico e peculiare, è qualcosa di più di un semplice atto voyeuristico. È parte di quella che siamo soliti chiamare – non senza una consistente dose di retorica, lo ammetto – la Magia del Cinema…
Ma non divaghiamo.
Anzi, per non farci mancare niente, eccovi in due parole la trama: intorno al 1959, la lunga avventura del cinema hitchcockiano (iniziata in Inghilterra, una trentina d’anni prima) sembra volgere al declino. L’ormai consacrato Maestro della Suspense è reduce dal fiasco de La donna che visse due volte (oggi considerato un caposaldo della sua carriera), dal quale si è risollevato solo in parte grazie alla buona accoglienza riservata a Intrigo internazionale (1959)… È frustrato e sente il bisogno di ripensare il proprio modo di “fare film”. Gli serve un nuovo soggetto, un’idea qualsiasi, ma che sia semplice e tagliente, incisiva e provocatoria – qualcosa che smuova gli spettatori dalle loro poltroncine, proprio come fanno quei filmetti horror a basso costo che affollano i drive-in e le sale della profonda provincia americana… roba come Sangue sotto la luna (Arnold Laven, 1952), Violated (Walter Strate, 1953) o Macabro (William Castle, 1958), per capirci. Ed ecco che a soccorrerlo si presenta l'ultimo romanzo del quarantaduenne Robert Bloch, scrittore di Milwaukee che – muovendosi tra misteri lovecraftiani e brutalità splatter-gore – è riuscito a conquistare un pubblico discretamente corposo, ma che è a sua volta in cerca della “grande svolta”… Hitch ne è conquistato al punto da far comprare tutta la tiratura in circolazione nelle librerie d’America: la trama di Psycho deve rimanere segreta, finché lui non ne avrà tratto il suo film.

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Nella celeberrima – e già ricordata – intervista che l’ormai maturo Maestro anglo-americano concesse al giovane Maestro della Nouvelle Vague francese (Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut, 1983), sir Alfred si rivolge al soggetto di Psycho come alla “storia di un tale che aveva tenuto il cadavere della madre in casa, da qualche parte nel Wisconsin”. Tipico understatement britannico per descrivere il Caso di cronaca nera che, alla fine degli anni Cinquanta, colpì l’inconscio collettivo statunitense con una violenza paragonabile solo a quella che il decennio successivo avrebbe riservato all’omicidio Kennedy, producendo schegge e propaggini immaginifiche di cui ancora oggi raccogliamo i frutti.
Il caso di Edward Theodore “Ed” Gein.
Nel film di Gervasi, il “vecchio Eddy” fa capolino qua e là – interpretato da un magistrale Michael Wincott – come una sorta di controfigura spettrale, di ispiratore occulto dell’opera hitchcockiana, che compare tra sonno e veglia per indirizzare i “movimenti di macchina” del regista. Quest’ultimo peraltro – è più che mai opportuno segnalarlo – è interpretato niente meno che da un efficacemente truccato Anthony Hopkins, ultracelebrato interprete dell’ancor più celebrato psichiatra cannibale Hannibal Lecter (sul quale ci sarebbero molte, troppe cose da dire!). Insomma, come vedete, le connessioni, tanto immediate quanto remote che legano ogni tassello di questo puzzle sono così numerose, brulicanti e multiple che il rischio di perdersi si ripropone continuamente. Teniamo dritta la barra del timone, dunque, e ritorniamo a Gein.

Eddy è nato nell’agosto del 1906 a La Crosse e si è trasferito in tenera età a Plainfield. Qui, in un’amabile fattoria in mezzo al nulla, trascorse un’infanzia serena, se per “serena” voi intendete terrorizzante, solitaria e repressiva. Augusta, la sua mammina, era infatti una fervente donna di fede e non mancò di torturarlo psicologicamente con le proprie visioni infernali fino a farne un piccolo maniaco, perseguitato da oscure turbe sessuali e pulsioni necrofile. Una virtù, questa, che si dimostrò fruttifera dopo la scomparsa (non è mai stato appurato se da lui “accelerata” o meno) di tutti i suoi familiari, quando lo vide esecutore di (solo) due omicidi accertati – quello di Mary Hogan e quello di Bernice Worden – ma soprattutto di una vasta produzione “artigianale” e decorativa realizzata con ossa, membra cadaveriche, pelle, organi interni e via dicendo. La lista dei macabri manufatti – coprilampada, mobili, “tappezzerie” e abiti di epidermide umana conciata – che Gein confezionava con pezzi prelevati da almeno tre diversi cimiteri per arredare la sua fattoria, varia a seconda della fonte (quella che troverete su Wikipedia è solo una delle tante versioni), ma rimane in ogni caso sinistra oltre ogni dire.

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Il ragazzone omicida viene incastrato nel novembre del 1957 e l’anno successivo è dichiarato infermo di mente. Rinchiuso prima nel Central State Hospital di Waupun, poi nel Mendota State di Madison (sempre nell’amato Wisconsin) morirà nel 1984 – lo stesso anno in cui anche Truffaut, più giovane di ventisei anni, passò a miglior vita…
Al cinema piace parlare di se stesso, dicevamo all’inizio. Ed è un parlare inesauribile e logorroico, disperso lungo mille rivoli e tentacoli che dialogano segretamente con la realtà. La ingannano, la deformano senza però violarla – in un certo senso, la rendono “più reale di se stessa”. Se infatti è vero che lo stesso Robert Bloch dichiarò di averne scoperto l’esistenza solo dopo aver già avviato la scrittura di Psycho, e che sir Alfred, come abbiamo visto, si riferiva a lui come a “un tale nel Wisconsin”, ciò non toglie che Ed Gein (il suo spettro, se preferite) sia una componente essenziale del capolavoro hitchcockiano, senza il quale il timido assassino impersonato da Perkins rimarrebbe come una maschera senza volto, un abito senza corpo, una funzione matematica incapace di esprimere un valore numerico concreto. Sacha Gervasi è stato capace di cogliere questa necessità narrativa al punto di farne, in un certo senso, la colonna vertebrale del suo biopic e di raccontare, attraverso questa e molte altre sottili sfumature, quello che – con espressione sicuramente abusata, ma comunque esatta – non può che essere definito il Lato Oscuro della creatività. E, detto questo…

È buffo trovarsi qui, dopo tante parole, e dover constatare che anziché aver esaurito il tema, ci stiamo appena-appena affacciando sulla sua soglia. Vi lascio scusandomi (se vi ho annoiato) e augurandomi (se così non è stato) di ritrovarvi da queste parti tra non molto, per proseguire il viaggio, sotto la pioggia battente. Nelle contrade in cui ci siamo avventurati – infatti – c’è ancora molta strada da fare, prima di essere al sicuro.

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Posso dire: wow, mi piacciono pure le immagini di questo articolo. Complimenti!

Grazie, @roch66! Sono molto stilizzate, con l'idea di trasmettere un'"impressione" più che una "visione", e credo che, intese in questo senso, possano essere efficaci. Ti confesso però, che vorrei perfezionare ulteriormente l'aspetto grafico dei post, perché... anche l'occhio vuole la sua parte :-)

Mi piace sempre questo tuo "percorso guidato" tra i prodotti del cinema, che siano trash, horror, psycho è sempre una bella lettura e non ti smentisci mai. Ogni volta è una piccola scoperta, una finestra che si apre su un mondo già vasto e affascinante di suo, ma che con te diviene ancora più saporito (passami il termine, non ho resistito dopo aver letto di Hopkins!).

Confesso anche stavolta la mia ignoranza, non sapevo del film di Gervasi ma la lettura del tuo post mi ha incuriosito e credo che il film meriti una visione. Magari in coppia con il capolavoro di Hitchcock, per un ripasso.

Grazie della condivisione!

Cara @nawamy, grazie a te!... Sì, certo, i sottoscala e i cunicoli più nascosti di questo universo cine-fanta-horror-noir (e chi più ne ha più ne metta) sono pieni di materiali "saporiti" :-) curiosi, tutti da esplorare – e ti assicuro che per ora abbiamo solo scalfitto la superficie... Se c'è qualche tema in particolare che ti piacerebbe approfondire, non esitare a dirmelo!
A presto.

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