Due canini davvero... incisivi

in #ita6 years ago (edited)

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È proprio un peccato che sia durata solo tre stagioni.
Penny Dreadful, la serie televisiva ideata nel 2014 da John Logan era – a partire dal suo nome – l’autoironica sintesi di un intero universo immaginifico, una galleria di figure, ambientazioni e atmosfere ancora oggi care alla cultura popolare dell’occidente.

Ombre di un’età – quella cosiddetta Vittoriana – che ha dato i natali a mostri e personaggi immortali sospesi tra storia e finzione, divinità del pantheon orrifico che tornano spesso a farci visita. Squartatori psicopatici, scienziati dalla doppia personalità, non-morti venuti da lontano, per conquistare Londra…
La Londra fumosa di Dickens, di Wilde e di Stevenson, quella dell’Esposizione Universale e del darwinismo, di Babbage, di Marx e di Swimburne – la “capitale del mondo” che ha influenzato la nascita dello Steampunk e suggerito gustose ucronie letterarie come l’
Anno Dracula di Kim Newman…

In questo brodo di entusiasmi coloniali, fuliggine e miseria, i Penny Dreadful – giornaletti a buon mercato, ricchi di contenuti sensazionalistici e racconti orrorosi - erano gli antenati dei Pulp Magazine americani e delle nostre “collane da edicola”. Diffondevano tra la piccola borghesia e i lavoratori alfabetizzati quei “cheap thrills” che anche noi continuiamo a cercare, in televisione o nelle spire del web…

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Ed è da lì, dall’universo brulicante – solo in parte recuperato dalla filologia contemporanea – dei Penny Dreadful che viene il terribile e tragicomico anti-eroe di cui vorrei brevemente parlarvi quest’oggi. Ma prima di tutto, fate un respiro profondo, perché per raggiungere la meta dovremo immergerci un poco nelle profondità del più ampio e oscuro oceano che le contrade del Fantastico conoscano: quello dei Vampiri. “Di loro – ho scritto tempo fa, celebrando il duecentesimo compleanno di Frankenstein – si parlerà sicuramente nei prossimi ‘capitoli’ di Altrimondi”… Ed è una promessa che è ormai giunto il tempo di onorare. Se lo faccio con tante esitazioni è perché si tratta di un territorio vastissimo e dalla geografia incerta, nel quale più si è sicuri del sentiero intrapreso e più sarà facile smarrirsi in una selva di conclusioni affrettate. Infatti, come spesso accade quando si maneggiano le forme e le figure dell’immaginario, è difficile affermare cosa effettivamente sia un vampiro ovvero se esso sia descrivibile nei termini di un identikit universalmente accettato. Per dirne una: i non-morti sentimentali, logorroici, cervellotici, incipriati e super-eleganti che negli ultimi decenni hanno imperversato tra grande e piccolo schermo – in saghe cine-letterarie come quella di Twilight o in serie come The Vampire Diaries o True Blood – e che forse sono già fuori moda, provengono solo mooolto indirettamente dal più celebre antenato, il Dracula stokeriano (1897). Sono piuttosto lontani eredi del Ruthwen creato nel 1819 da John William Polidori (The Vampire) – al quale ho accennato a suo tempo, e del quale torneremo a parlare più diffusamente altrove – ma appaiono in realtà soprattutto quali figli e nipoti di imprese narrative decisamente più recenti, che risalgono tutt’al più agli anni Settanta – dal celebre Intervista col vampiro di Anne Rice (1976), all’Hôtel Transilvania di Chelsea Quinn Yarbro (1978) – e quindi rinfrescate nei Novanta dal successo di saghe letterarie come quella “di Anita Blake” (la cacciatrice di vampiri ideata nel ’93 da Laurell K. Hamilton) o televisive – vedi alla voce Buffy, the Vampire Slayer (1997-2003)…

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Insomma, il mondo dei revenant come vedete è un gran pasticcio, basta fare una mossa per infilarsi in un arcipelago di personaggi, autori, letture e interpretazioni che di volta in volta riformulano i contorni dell’amata sanguisuga notturna. Per quanto mi riguarda, alle “romantiche caricature” che abbiamo velocemente passato in rassegna, continuo a preferire rappresentazioni più squisitamente abominevoli, bestiali, inquietanti e oscure. Un po’ perché mi sembra che l’immagine del Mostro Buono-ma-Incompreso-Discriminato-Emarginato “alla Dylan Dog” (o “alla Frankenstein”, se preferite) sia ormai abusata e consunta oltre ogni ragionevole limite; un po’ perché credo che questi nostri tempi di civilizzata barbarie, educata crudeltà e legale iniquità meritino (e abbiano urgenza) di specchiarsi nel volto deforme, nella fisionomia anti-morale e sinceramente carnivora di un Mostro Vero, con i contro-cosi al loro posto. Ma questa – al solito – è una divagazione… Tornando a noi, la raffigurazione che personalmente preferisco, dicevo, può essere quella contenuta in film come Vampires (John Carpenter, 1998 – dal romanzo di John Steakley) o – perché no? – nel gustoso teen horror anni Ottanta Night Fright (Tom Holland, 1985), da non confondere con lo scipito remake di Craig Gillespie (2011)… Ma, soprattutto, in quel cupo e disperato “mini-cult” che è il The Night Flier di Mark Pavia (1997). Tratto da un racconto di Stephen King (che confesso di non aver letto), questo piccolo cine-gioiello dal sapore vintage non ha mai avuto una vera e propria distribuzione italiana in formato DVD o Blue-Ray, ma chi fosse interessato a dargli un’occhiata… Be’, diciamo che curiosando un po’ in Rete non farà troppa fatica. In ogni caso, ciò che troverete tra i suoi fotogrammi è una versione rancida, putrefatta, brutalmente macabra e genuinamente infera del vampirismo, che – e questa è la sfumatura più importante – non rinuncia a lasciare il Demone (per quasi tutto il film) nascosto nel mistero, nella penombra o nella più fitta tenebra. Della trama (almeno per ora) non vi racconto nulla; approfitto solamente dell’occasione per porgere un affettuoso saluto all’attore protagonista della pellicola – l’ottimo Miguel Ferrer – che ci ha purtroppo prematuramentre lasciati nel 2017.

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Detto questo, è ora di chiudere il cerchio.
Torniamo a Londra, nella metà dell’Ottocento, lungo le strade affollate della metropoli, dove cameriere, fattorini, tate, bottegai, calzolai, cocchieri e stallieri, impiegati di banca, barbieri e fornai si avviano a sera verso qualche ora di meritato riposo e – non avendo sotto mano un televisore – cercano un po’ di succulento svago tra le pagine di un Penny Dreadful. È qui che tutti loro incontrarono – tra il 1845 e il 1847 – uno dei personaggi più popolari e seguiti, più amati e (come accade spesso, ahinoi) più rapidamente dimenticati della storia universale dell’entertainment: Sir Francis Varney, o – per meglio dire – Varney the Vampyre or The Feast of Blood. Gli autori o, per quanto ne sappiamo, le autrici di questa monumentale opera – infine più di ottocento pagine! – sono e rimarranno in gran parte anonimi (in omaggio a un malcostume che ancora oggi caratterizza il lavoro editoriale), ma gli studiosi ne hanno rintracciati almeno due: Thomas Preskett Prest e James Malcolm Rymer. Poligrafi dalla penna infaticabile, questi due signori presero parte alla grande fabbrica di Varney e costruirono per lui una lunghissima avventura, piena di pathos e suspense, di stucchevole sentimentalismo così come di humour, di esotismo neogotico, di sangue e sensualità – sempre accennata e allusa senza essere espressa, of course – ma soprattutto di trame e sottotrame chiuse in scatole cinesi, matrioske e labirintici intrecci … Impossibile riassumere tutto ciò. Basti dire che Varney è forse il primo vero vampiro che – seppure cinico e spesso maldestramente arrapato – riesce a conquistare la simpatia del pubblico più del suo disgusto o della sua disapprovazione. Muovendosi tra Londra e la campagna inglese, non senza una digressione nel nostro paese, il Nostro non sembra veramente mosso da qualche mefistofelico progetto di potere. Cerca solo di “tirare a campare” (si fa per dire, visto che è morto nel 1713), ovvero di impadronirsi, attraverso travestimenti e inganni che anticipano le imprese di Arsène Lupin e Fantômas, dell’eredità di questa o quest’altra fanciulla – sempre che non preferisca saltarle alla giugulare con le fauci spalancate… Un compito che, nell’uno come nell’altro caso, gli è il più delle volte reso difficile dall’intervento del Buono di turno o dall’immancabile “folla inferocita”…

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Per molti, moltissimi anni, come accennavo, Varney The Vampyre è sprofondato nell’oblìo. Un’opera che – a prescindere da quello che si può, più o meno arbitrariamente, definire il suo “valore letterario” – rappresenta un tassello fondamentale nella storia della narrazione vampirica, vero e proprio “anello mancante – secondo la definizione che ne ha dato l’esperto Carlo Pagetti – che completa un percorso iniziato nel 1819 nella narrativa inglese con Il vampiro di John William Polidori”… ebbene, un’opera di questo calibro è rimasta indisponibile per i lettori inglesi fino al 1970, quando fu riesumata dall’americana Arno Press in una versione anastatica che riproduceva la prima edizione in tre volumi del 1847. Per noi italiani (e per il sottoscritto, che nel corso degli anni l'ha trovata più e più volte citata su questo e quest’altro saggio specializzato senza mai poterla sfogliare materialmente) è invece rimasta nel limbo fino al 2010. Il merito della sua rinascita – voglio dirlo a voce alta – è del compianto Paolo De Crescenzo, un horrorofilo che, dopo aver fatto fortuna – e che fortuna! – in altri ambiti professionali, ha voluto dedicarsi alla sua grande passione di sempre: l’amore per la letteratura del mistero soprannaturale, del brivido e del raccapriccio. Per farlo, si è reinventato editore e, nel 2004, ha creato dal nulla la Gargoyle Books – grazie alla quale ha potuto pubblicare decine di titoli inediti o – come nel caso del nostro Varney – irreperibili sul mercato italiano. De Crescenzo, che ho avuto la fortuna di conoscere, riusciva ad essere molte cose insieme: era un gentiluomo, una persona estremamente lucida e pragmatica, ma nel contempo era un sognatore (uno degli ultimi) – e quando si è spento, nel gennaio del 2013, molte altre cose si sono spente insieme a lui. La sua ultima impresa, Gargoyle Books, è purtroppo caduta in mani improvvide. Sopravvissuta per qualche tempo è poi divenuta niente più che un marchio “svuotato” di ogni contenuto e malamente riempito con materiali bizzarri e incongrui, finché, abbandonata tra i flutti di un mercato difficile come quello librario, sembra ormai essere scomparsa.
Ma Varney il vampiro… Varney è ancora con noi.

Post Scriptum.
Come credo avrete notato, questa è una nuova sezione di
Altrimondi, il mio e vostro “magazine del Fantastico”.
Si dirà che avrei potuto inserire Varney e i vampiri nello spazio dedicato a
I Giganticioè ai grandi classici immortali. Ma il personaggio in questione è troppo “sopra le righe” e, in un certo senso, troppo “underground” per convivere agevolmente in tale compagnia. Avrei potuto parlare dei vampiri in quanto mostruosità “aliene”, e di conseguenza relegare il nostro amico in Alienamente, ma – ad esser franchi – mi pareva un’eccessiva forzatura concettuale. Ho quindi appositamente ideato la sezione Percorsi, che ci consentirà – quando si renderà necessario – di viaggiare liberamente lungo gli itinerari improvvisati dell’immaginazione e della cultura…

Post Scriptum 2
Wops... Mi son reso conto d'aver tralasciato un dettaglio importante: le immagini che compaiono in questo post (come in tutti i miei post) sono di mia concezione, realizzazione e proprietà.

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Peccato davvero che sia finito dopo sole tre stagioni!

Beh, certo... è stato un peccato per Penny Dreadful, ma per Varney the Vampyre... beh, dopo 800 pagine non poteva che giungere a una inevitabile conclusione :-) Grazie @pawpawpaw. Ho letto con interesse il tuo intervento su Alessandro Magno. Sapevi che gli Iron Maiden, nel 1986 (album "Somewhere in Time") gli hanno dedicato un lunghissimo pezzo?... Si intitola "Alexander the Great", Naturalmente.

Certo che lo sapevo!!!!!! :) conosco la canzone visto l'amore per gli Iron Maiden.
C'è anche un gruppo metal, i Kamelot, che hanno scritto una canzone sul grande Alessandro ''Alexandria".

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