Di street photography e altre sciocchezze
C’è stato un momento, alcuni anni fa, in cui per me fotografia ha cominciato a fare rima con terapia.
Mettila così: era un periodo complicato - su vari fronti - e mi era in qualche maniera necessario qualcosa che mi consentisse di mettere il naso fuori di casa, vivere sensazioni, incontrare, riappropriarmi della realtà e della vita.
Questa è una foto a cui sono affezionato come ci si può affezionare a qualcosa che è nato un po’ nella testa e un po’ nel cuore.
Foto dell'autore
In quei mesi ero imbevuto di street photography. Ne cercavo confusamente una filosofia sui testi sacri della storia della fotografia, sulle riviste (non ne perdevo una che fosse una), sui siti web. Comprendevo perfettamente che ad accendermi era la possibilità di immortalare un istante che non sarebbe mai stato identico a un altro, un momento trascorso che non sarebbe mai tornato. Lo trovavo - e francamente lo trovo ancora - immensamente poetico.
Nella mia ricerca della street photo perfetta adottavo due diverse strategie, alternandole sulla base dell’umore e di condizioni più generali, persino atmosferiche: in alcuni giorni, mi aggiravo per la città quasi famelicamente, in altri mi sceglievo un punto (non so, Piazza del Duomo) e attendevo guardandomi intorno con l’occhio fissato nel mirino, brandeggiando la Nikon lentamente da destra a sinistra, e poi indietro.
La mattina in cui ho scattato questa foto ero rientrato dalle parti natie, vicino a Gorizia. Ero seduto su un sasso, in pieno sole, a godermi un attimo di riposo dopo una lunga camminata reflex-al-collo. Alla mia sinistra, ho visto un bimbo avvicinarsi timorosissimo a un cavallo, la madre accorrere un po’ preoccupata inginocchiarsi, e nel rettangolo davanti al mio occhio destro si è composto un quadro fatto di sguardi, protezione, timore.