ANDATA E RITORNO [Autobiografia | Capitolo 1: Notti Magiche]
NOTTI MAGICHE
Era la fine degli anni ‘80 e il Mondiale di Italia ‘90 era alle porte. Si sentiva nell’aria.
Forse era la prima volta in cui effettivamente guardavo la TV e realizzavo che c’era un mondo al di fuori della mia cittadina di provincia. Al di fuori di Novara.
Al calcio di inizio quella estate del 1990 avevo 7 anni. Sette anni passati a vivere prima con la mia famiglia allargata in un quartiere di periferia. Ci saremmo spostati da lí soltanto parecchi anni piú avanti.
Vivevo al settimo (e penultimo) piani di un blocco di cemento che non avrebbe sfigurato nella Repubblica Sovietica degli anni ‘40. La mia famiglia odiava quel condominio. A me piaceva. Aveva un odore tutto suo. Non so se era perché ero piccolo all’epoca, ma mi sembrava enorme. Era un microcosmo a se stante. Sembrava vivo.
Con le sue decine di famiglie, ognuna con una storia diversa ma tutte con un comun denominatore: lo stato sociale.
In quell’appartamento ci vivevamo in cinque. Tanti? No, al di lá di tutto era abbastanza grande. O forse era sempre la mia prospettiva dell’epoca.
Era Estate.
Argentina - Camerun allo Stadio Meazza di Milano. Mentre Bruno Pizzul presentava le formazioni la mia testa era ancora ferma quei due tizi che cantavano sul campo una canzone dal titolo “Notti Magiche (Un’estate Italiana)”. Quei due tizi scoprí poi chiamarsi Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. Ragazzi, che brividi.
Ci saranno stati 35 gradi in quell’afosa estate del 1990. Le zanzare volavano in formazione stile frecce tricolori. Dalla finestra entravano i suoni dai vicini di casa. Ovviamente, stavamo tutti con il televisore acceso sullo stesso canale.
Nelle settimane susseguenti era un solo parlare di Schillaci, del giovane Baggio, della Germania (vincitrice) e dell’Argentina. Si, l’Argentina ci fece fuori. Ma a quell’etá non me la presi piú di tanto.
Eravamo poveri. Non ci mancava mai da mangiare ne vestiti puliti addosso, ma erano tempi duri. Niente cellulari (non esistevano ancora), ne vacanze di luoghi esotici, ne vestiti di marca. Ma avevamo il quartiere. Lí si stava bene. Tra il giocare a calcio in mezzo alla strada, al playground di basket, all’esplorare le vie limitrofi con aria furtiva.
Non ci serviva altro.
Uno dei miei passatempi era il rubare (ehm, prendere in prestito) i carrelli della spesa dal vicino ipermercato portarli al 47 (il mio numero civico) per giocarci. Fino a quando non mi venne la bellissima idea di prendere mio cugino (che all’epoca a malapena camminava), metterlo dentro e spingere il carrello ad una velocita tale che Usain Bolt spostati che passiamo noi. Il piu delle volte inciampavo e il carrello si fermava sul fondo della strada. O contro altre macchine.
Le risse erano all’ordine del giorno, specialmente quando sforavamo ed andavamo in perlustrazione nei quartieri vicini (leggi: nemici). Eravamo piccoli ergo tutto sfociava quasi sempre nel nulla o al massimo in un paio di spintoni. I grandi invece le facevano sul serio, e noi lí a fare da spettatori. Quanto ci divertivamo.
Gli anni passavano e il quartiere cominciava a starmi stretto. Fortuna (o sfortuna) vuole che le scuole erano a mezz’ora di bus da casa mia. Incominciavo ad esplorare la cittá.
Bravo. interessante e scritto bene.
Grazie!